Davide Viganò

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  1. SarriTheBest
     
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    Viganò: vi farò vedere chi sono
    Cinque anni tra i professionisti, di cui tre passati spesso fianco a fianco di campioni del calibro di Paolo Bettini e Tom Boonen. Davide Viganò, venticinquenne brianzolo di Carate, è alla ricerca della prima vittoria da professionista (un successo l’ha siglato, ma in un cronoprologo a squadre), ma soprattutto è voglioso di scoprire quali sono i suoi effettivi limiti.
    «Sono passato professionista nel 2004, questo è il quinto anno ma ancora nessuno ha visto il vero Viganò. Non sono riuscito ad esprimere quello che so fare per diversi fattori: malattie e infortuni non sono mancati, ma c’è da considerare che sono stato al servizio di Bettini e Boonen in quanto facevo comodo ad entrambi perché me la cavo benino in volata e nelle salite medie. Oltre a questo aggiugiamo i problemi famigliari e il quadro è completo».
    Davide ha dovuto sopportare la prematura scomparsa del padre Elio stroncato da un infarto nel luglio del 2007. Era stato proprio il papà, con nonno Enrico, a trasmettergli la voglia di inforcare la bicicletta a otto anni. Un grande fiuto, il loro, in quanto il giovane Davide nel 2000 arriva addirittura sul tetto d’Italia vincendo il tricolore nella categoria allievi. Nelle giovanili una carriera ricca di trionfi, tanto da consentirgli il passaggio a due formazioni di grande tradizione e scuola tra i dilettanti: prima la Zoccorinese di Olivano Locatelli e poi la corazzata Zalf Désirée Fior di Luciano Rui. Solo due stagioni tra i puri prima del passaggio tra i prof con l’Androni Giocattoli nel 2005 dove resta fino ad agosto, poi è la Quick Step ad accorgersi del brianzolo e a portarlo alla sua corte. Dopo aver lavorato per tanti campioni, da quest’anno Viganò ha cambiato maglia approdando alla Fuji Servetto. Diverso il team, soprattutto diverso il ruolo. Con maggiore libertà Davide ha iniziato la gran rincorsa al vertice mettendosi in luce al Giro d’Italia dove si è piazzato ben 5 volte tra i primi dieci (miglior risultato il quarto posto nella Innsbruck-Chiavenna).
    «Sono stato favorito dal fatto che potevo fare la mia corsa, il team mi ha concesso la libertà di fare gli sprint senza chiedermi di lavorare per gli altri - riflette Viganò che vive sempre a Carate ed è fidanzato con Emanuela, classe 1987, universitaria di Cabiate -. Pensare che non dovevo neanche partire: all’inizio dell’anno sono stato bloccato dalla mononucleosi che mi ha compromesso la preparazione. Poi in Spagna, al Giro delle Asturie, sono arrivato terzo in una tappa e la Fuji Servetto mi ha chiesto se me la sentivo di andare al Giro d’Italia. Ho accettato anche se non ero preparato a puntino, ma è stata una scelta felice in quanto mi sono messo in mostra e sono soddisfatto di quanto ho fatto».
    Stare in squadre con i grandi campioni ha lati positivi e negativi. Da una parte sei sempre a disposizione, dall’altra però s’impara in fretta a diventare “grandi”. Che peso ha avuto ad esempio Bettini nella tua crescita?
    «Sicuramente ha avuto un peso enorme. Stare al fianco di un corridore del calibro di Paolo è essenziale. Non ho dovuto crescere da solo e a lui ho avuto la possibilità di rubare il mestiere corsa dopo corsa, ascoltandolo, osservandolo. Con Bettini si impara di sicuro come fare per vincere. Poi sta a te mettere in pratica i suggerimenti e sfruttare le occasioni. Io ancora non sono riuscito a farlo per i motivi che ho spiegato prima, ma non ho dimenticato nulla dei suoi insegnamenti e, se la ruota finalmente si mette a girare, spero di metterli in pratica».
    Da buon brianzolo Davide è un gran lavoratore, silenzioso e scrupoloso. A volte però queste doti possono anche diventare un freno…
    «In qualche caso è vero. Non ho mai avuto paura di lavorare, di allenarmi, di prepararmi a puntino. Anzi a volte mi preparo troppo, è capitato che sono arrivato alla corsa e, come si dice in gergo “ero finito” per troppo allenamento».
    Ma ad aiutare gli altri si perde l’abitudine a vincere?
    «Quando firmo il foglio di partenza sono sempre convinto di poter vincere. Se perdi questa grinta che ti viene da dentro è finita: mai abituarsi a non vincere! Ogni fine corsa sono sempre arrabbiato con me stesso e mi scavo dentro per vedere dove ho sbagliato e capire dove migliorare. Penso spesso agli anni giovanili quando vincevo e sogno di rifarlo: anche questo mi aiuta e mi convince che posso ancora ritrovare il feeling col successo».
    Quanto ha influito la prematura scomparsa di papà Elio?
    «Tantissimo. Io sono di carattere introverso, non espongo i miei sentimenti. Quando è morto papà mi sono tenuto tutto dentro, me la sono vista tra me e me e ci ho messo parecchio ad abituarmi all’idea di non averlo più. E questo ha influito sul mio lavoro: per un anno il rendimento si è abbassato, forse mi è mancato accanto qualcuno che nell’ambiente del mio lavoro mi aiutasse a tirarmi fuori da quella situazione. Ma non voglio parlare degli altri, è stato il mio carattere che non mi ha aiutato in quella situazione. Ora le cose stanno girando però: il pensiero di papà mi porta a stringere di più i denti, mi spinge a soffrire e lottare per vincere. Sento di doverlo fare per lui e così quello che per un certo periodo è stato un freno ora si sta tramutando in una forte spinta».

    di Valerio Zeccato, TuttoBICI di Settembre 2009
     
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13 replies since 22/11/2007, 23:18   985 views
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